da www.nigrizia.it
Ho assistito al matrimonio di un popolo con la sua letteratura. E ho scoperto un gran romanzo capoverdiano, immerso nella morabeza.
La domenica, da un po’ di tempo a questa parte, invece di oziare come un fantasma dentro casa, rigorosamente in ciabatte e sguardo afflitto (o, come alternativa, andare a qualche pranzone di quelli noiosi e pedanti), vado alle presentazioni di libri. In qualche modo, non mi allontano molto dal mio mondo: scrivo libri, leggo libri, recensisco libri, cerco libri, vado matta per i libri e temo (ormai ne ho la certezza) di essere una libri-dipendente.
Quindi, la domenica, invece di andare in crisi di astinenza, cerco la mia passione con una foga maggiore rispetto a quella che mi prende nei giorni feriali.
In una di queste scorribande domenicali, m’è capitato di conoscere Chiquinho. È un bambino-ragazzo. È furbo, ingenuo, riccio, nero. Ha tante storie nella testa e tanti sogni nel cuore. In lui ci sono anche confusione, rabbia e smarrimento. Ha occhi grandi e membra agili. Allo stesso tempo, però, mi sembra stanco e, anche se giovanissimo, un po’ vecchio. Cammina come uno zoppo, ma poi riesce a correre più veloce del vento.
Ci mostra mondi il piccolo Chiquinho, e in questi mondi ci sono fantasmi, sirene, eroi, cavalieri, primi amori, ultimi amori, la nascita di una coscienza e di una lotta. Ci mostra anche la fame e le contraddizioni, la vita e la morte. Il tutto, immerso in quella "quieta agitazione" che i capoverdiani chiamano morabeza. Sento la morna (un ritmo capoverdiano) accompagnare questo piccolo grande uomo, la morna che ci dà pace e sentimento.
Quello che mi colpisce di più è il modo di ridere di Chiquinho. Attraverso il suo riso, egli insegna. E, alla fine, ti fa piangere e ridere insieme. Se lo incontri, ti cambia la vita.
Naturalmente Chiquinho è un romanzo (Edizioni Lavoro, 2008). È il romanzo di una generazione, di un popolo, di un progetto, di un tragitto. Mi chiedo se l’autore, Baltasar Lopes, fosse pienamente consapevole di quello che stava creando. Anche i più fini scrittori non s’immaginano il futuro della propria opera.
Ma forse Baltasar l’aveva quantomeno intuita. Infatti, Chiquinho non è solo un personaggio, ma anche uno stile di vita, una storia che può essere quella di tutti.
Ero andata all’ambasciata brasiliana, dove si presentava questa opera della letteratura capoverdiana, senza aspettarmi nulla. Non conoscevo né l’autore né l’opera. Ero senza aspettative: solo curiosa. C’era la Capo Verde romana al gran completo a festeggiare l’uscita della traduzione italiana del libro. L’orgoglio di un’intera nazione, racchiuso negli occhi di donne e bambini.
Ho tanti amici capoverdiani e li ho visti schierati al gran completo. C’erano Maria De Lourdes Jesus, Dulce Araujo, Jorge Canifa Alves.
E poi c’erano tanti amici di Capo Verde: da Anna Fresu a Francesca Vitalini, passando dallo speaker filosofo di radio Vaticana, Filomeno Lopes, e il traduttore italiano, Vincenzo Branca, visibilmente emozionato. Tutti a festeggiare un libro.
L’atmosfera mi ha ricordato le feste aroos somale, quando la sposa è portata nella casa dello sposo. Il matrimonio che si festeggiava era quella di un popolo con la sua letteratura.
È stato bellissimo partecipare a un pomeriggio così letterario. Non mi capitava da tempo. Grazie, amici capoverdiani. Grazie di cuore.
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