Diario dal Niger
di Catia dos Santos (26 anni)
agosto 2008
Niamey, Niger, la mia prima esperienza di cooperazione, la prima volta nel Continente, nella terra ferma almeno. Un viaggio tanto agognato, un ritorno alla terra madre follemente animato dalla speranza di sentirmi a casa, vedere, conoscere e decidere. Il primo impatto è quello dei colori familiari: la terra rossa del Sahel, sabbiosa o argillosa, sormontata da qualche arbusto che ripara dal caldo bianco del sole. E’ la stagione delle piogge che portano con sé una ventata d’aria fresca, un sollievo per le elevate temperature ma che allo stesso tempo rendono le strade non asfaltate impraticabili.
La prima cosa che si nota delle persone è la prontezza che hanno nell’offrire diversi servizi: dal trasporto delle valigie, all’apertura dello sportello, dalla vendita di carte telefoniche alla diretta richiesta, gentile ma insistente, di qualche spiccio da inviare al villaggio che in questo periodo dell’anno è bloccato dall’attesa del raccolto. Mi è familiare la timidezza con cui inizialmente ti accolgono i Nigerini, ma altrettanto familiare la disponibilità che dimostrano poco dopo nel cercare di metterti a tuo agio. Non è caldo solo il clima, ma lo sono anche i contatti umani. Le persone sono vicine senza toccarsi fisicamente, soprattutto uomini e donne non imparentati come prevede il codice di comportamento islamico, e condividono quello che hanno, che sia un frutto o un bicchierino di the. La cerimonia del the si apre al mattino con una piccola teiera e 4 bicchierini di vetro che vengono passati da persona a persona e trasportano nel corso della giornata un infuso di intensità sempre decrescente. I richiami del Marabou echeggiano durante tutta la giornata intonando versi del Corano anche al di fuori delle 5 preghiere canoniche e sono lanciati dagli altoparlanti installati all’esterno di ogni moschea e dalle radio sempre accese.
Le strade sono piene dei colori sgargianti degli abiti tradizionali Hausa, Zerma, Peul e dei colori pastello dei Tuareg (crema, celeste, rosa; il blu tipico è meno diffuso), interrotti da qualche jeans e maglietta aderenti. La vita è animata fin dalle prime ore del mattino: ovunque bambini che giocano, donne che preparano la colazione da vendere ai viandanti, uomini e donne in sella a biciclette e motociclette spesso rumorose, fuoristrada di qualche nigerino possidente e del personale straniero, taxi che sostituiscono i bus. L’uso del clacson è obbligatorio per chi vuole evitare di colpire pedoni che attraversano improvvisamente o motociclette che di sovente tagliano la strada, ma a volte è un segnale della precedenza: chi suona per primo passa.
Ai bordi della strada venditori di ortaggi e frutta , piccoli alimentari, Nescafé bar, negozi di telefonia, parrucchieri, filiali delle banche e giganteschi cartelloni della cooperazione internazionale primeggiano. Ai semafori ragazzi o bambini propongono le schede telefoniche, i fazzoletti o accompagnano un anziano non vedente. Quasi ogni crocevia è segnato da una caserma militare il cui numero identificativo è usato anche per designare i diversi quartieri.
E’ un posto calmo ma animato, silenzioso ma vociferante, ricco di visi sorridenti e manine pronte a muoversi in un ciao timido espresso principalmente in Zerma, Hausa e Francese.
No, non sono a casa mia, ma in quella dei vicini e sono contenta perchè avrò modo di conoscerli nell’arco di questi quattro mesi e rimuovere nel bene e nel male pregiudizi romantici o luoghi comuni fastidiosi che necessariamente accompagnano chi non vive la realtà dei Paesi africani ma l’immagine che di essi ne trasmettono membri della Diaspora, studiosi e mass media.
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